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La tragedia di Cutro è una ferita ancora aperta


La tragedia di Cutro è una ferita ancora aperta all’interno della società civile e dell’opinione pubblica, non solo Calabrese ma anche Italiana. La strage di donne e di bambini, che sono la maggioranza delle persone decedute a Cutro, ha aperto infatti una breccia nella retorica mainstream sulle migrazioni che negli ultimi anni ha preso piede in Italia, alimentata anche da certa propaganda mediatica e politica.


La criminalizzazione dei migranti, la retorica dell’invasione e dell’approccio poliziesco a un fenomeno storico e strutturale come quello dei movimenti di persone e popoli, ha avuto come conseguenza il radicarsi di una percezione negativa dello straniero, a volte anche inconscia, la disumanizzazione del migrante e una tolleranza emotiva diffusa a dati tremendi come quelli della conta dei morti in mare o alle varie frontiere della fortezza Europa.


tragedia di cutro

Non ci si rende conto di quanto si è assuefatti a notizie come: “bimbo di pochi mesi muore annegato”, “giovane muore di freddo attraversando la rotta balcanica”, almeno finché dal magma di numeri indistinti non emergono le storie singole come quella del piccolo Aylan, o dei tanti nomi e volti che abbiamo imparato a conoscere a Crotone.

Lì l’umanità ci guarda direttamente negli occhi, e vediamo davvero, per la prima volta, cosa comportano le politiche di respingimento e di criminalizzazione degli aiuti.


La retorica del migrante invasore si scontra, a Cutro più che altrove, con una realtà dei

fatti che ci racconta di donne e bambine in fuga dal regime dei talebani o dall’Iran, quelle stesse donne e bambini che ci affrettiamo a sostenere, da dietro le tastiere dei nostri computer, quando emergono notizie come quelle delle proteste di Teheran, e che

poi scopriamo aver abbandonato a pochi metri dalle spiagge calabresi. La banalità del male e dell’indifferenza si risvegliano così da un lungo torpore; la giustificazione di non ver direttamente colpa sui naufragi, causati da scafisti senza scrupoli e da organizzazioni criminali che gestiscono i traffici, non regge più.


Ci si dimentica che nella lunga catena delle responsabilità dirette e indirette conta il mandante quasi come l’esecutore, che non è necessario aver preso parte direttamente a un’azione criminale per non esserne considerati in qualche modo corresponsabili. Così il lancio della pietra e il successivo nascondere la mano non reggono più neanche alla prova della propaganda politica. Il caso delle donne afghane impossibilitate a richiedere passaporti, impossibilitate a richiedere visti, impossibilitate a viaggiare regolarmente, costrette quindi a tentare la via illegale di accesso all’unica speranza di salvezza che è l’Europa, è emblematico della catena di responsabilità multiple che vede gli scafisti come ultimo piccolo tassello. In tutto questo dove si posizionano o dovrebbero posizionarsi i cittadini, gli attivisti, le organizzazioni della società civile? Necessariamente su due livelli.


Da una parte è infatti importante che nell’ottica della sussidiarietà, sancita dalla nostra Costituzione, si concorra tutti, insieme alle istituzioni, nella risposta immediata e concreta alle emergenze e alle problematiche sociali. Dall’altro è importante assumersi la responsabilità dell’azione di advocacy, di sentinella e di denuncia quando la dignità e i diritti di tutti non vengono rispettati.


La rete di enti del terzo settore e di singoli cittadini che nelle ore successive alla tragedia di Cutro ha dato vita spontaneamente, con un movimento dal basso, alla Rete 26 febbraio, ha dato prova di presenza su entrambi i livelli. Fin dalla prime ore mediatori, assistenti sociali, psicologi, operatori del sociale, si sono attivamente messi al servizio delle famiglie delle vittime e dei superstiti, colmando fin da subito buchi o mancanze nel sistema di intervento e assistenza istituzionale.


La cifra caratteristica dell’agire degli enti del terzo settore è stata l’attenzione prioritaria alla dignità e al rispetto dei diritti umani, al benessere psico—fisico e a un’azione improntata a empatia, gentilezza e amorevolezza. Valori che sembrano accenti stonati di una visione romantica dell’agire sociale e che invece dovrebbero essere i capisaldi su cui improntare interventi di assistenza e presa in carico, in particolare in situazioni di emergenza e di crisi.


Accanto a questo è necessario però che l’operatore sociale prenda coscienza del suo ruolo di sentinella e di portavoce di istanze di chi questa voce nello spazio pubblico non riesce ad averla. Il coraggio della denuncia di cui parla anche Papa Francesco, sta tutto qui: «Non possiamo rassegnarci e stare alla finestra a guardare, non possiamo restare indifferenti o apatici senza assumerci la responsabilità verso gli altri e verso la società». E questo slancio all’azione, questa voglia di mobilitarsi, è ben presente nella società civile, in attesa solo di essere convogliato.


Lo dimostrano le decine di adesioni arrivate in poche ore alla Rete 26 febbraio. E’ importante ora che questo entusiasmo non venga meno, che trovi il modo di incanalarsi verso azioni efficaci e concrete di supporto e di advocacy, che contrastino l’indifferenza, “peso morto della storia, male che si

abbatte su tutti” (A. Gramsci).



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